Il libro ricostruisce la vicenda di Antonio Franco, processato per 164 capi di imputazione, e della sua amante Serafina Ciminelli. Catturato in Lagonegro nella notte tra il 27 e il 28 novembre del 1865, condannato con sentenza del 29 dicembre 1865, Antonio Franco venne fucilato il giorno successivo sulla collina di Montereale a Potenza. Serafina Ciminelli, benché assolta e trattenuta in carcere perché empurata (da rieducare), morì in carcere di agostralia in data 12 settembre 1866. Il volume è corredato da tavole sinottiche e appendici che forniscono dati interessanti sul fenomeno del brigantaggio nelle diverse zone della Basilicata.
Prezzo: | €10.00 |
Dimensione: | 15cm x 1cm x 21cm (LxWxH) |
Peso: | 200 kg |
Recensioni
Prefazione
di
Giampaolo D’Andrea
Protagonisti della documentata ed interessante ricostruzione storica di Nicola Savino sono Antonio Franco – uno dei più feroci capobanda (ben 164 capi di imputazione al processo del dicembre 1865, concluso con la condanna alla fucilazione) che, negli anni immediatamente successivi alla proclamazione dell’Unità, seminò il terrore nell’area Sud della Basilicata – e Serafina Ciminelli, legata a lui dall’età di 17 anni fino alla morte, che la colse in carcere, pochi mesi dopo l’esecuzione del suo Antonio.
L’autore esamina dettagliatamente le principali azioni criminose di cui fu accusato il brigante francavillese: l’assassinio dei sindaci di Francavilla Grimaldi e di Terranova Virgallito, l’aggressione alla carovana dei benestanti senisesi reduci da una gita ai bagni di Maratea, le violenze brutali perpetrate nei confronti di esponenti delle forze dell’ordine ed in danno di cittadini comuni delle valli del Noce, del Mercure e del Sinni e persino calabresi.
Gli elementi vagliati e raccolti attraverso la consultazione di fonti archivistiche e storiografiche rafforzano l’impressione che si trattasse in realtà di fatti riconducibili alla criminalità ordinaria piuttosto che a quella politica, nella quale talvolta sconfinavano con deboli motivazioni, prevalentemente pretestuose, e senza quelle forme di rivendicazione e di denuncia che accompagnavano solitamente gesti finalizzati a provocare effetti di destabilizzazione più ampi.
Questa tesi sembra trovare conferma anche nel confronto con gli accadimenti registrati contemporaneamente nelle aree del Vulture-Melfese e, in un secondo momento anche nel Potentino e nell’Alta Val d’Agri, più noti alle cronache del grande brigantaggio proprio per il più accentuato profilo politico e sociale che assunsero soprattutto con le azioni delle bande di Crocco e Ninco Nanco.
Utilissime, a tal fine, si rivelano le cinque Tavole sinottiche che corredano il testo, insieme con le due Appendici, la seconda delle quali conferma il compiuto approdo di questi gruppi criminali al banditismo destinato, ahimè, a sconvolgere ancora per molti decenni la vita del Mezzogiorno.
La cultura garantista dell’autore lo induce a sollevare dubbi legittimi e fondati sulla sommarietà dei processi giudiziari al tempo della legge Pica, ivi incluso quello a carico di Antonio Franco, soprattutto nella parte che riguardò la sua giovanissima amante. Sicuramente in molti casi si trattò di riti sommari e non mancarono forzature e superficialità sia nella raccolta delle prove che nella formulazione delle sentenze. Così come ci furono indubbiamente eccessi nelle azioni repressive che caratterizzarono le fasi più acute del brigantaggio soprattutto nell’area irpino-lucana, il vero epicentro della sanguinosa reazione brigantesca, con inequivocabili derive legittimiste ed interessati sostegni (anche finanziari) internazionali, ampiamente provati in diverse ricostruzioni storiche. Ne furono consapevoli i settori più avvertiti del Parlamento , che non mancarono di denunciare il rischio di un pericoloso indebolimento delle basi di consenso del giovane Stato unitario, costretto a scendere in guerra contro i briganti senza avere una percezione esatta della natura, dei limiti e delle caratteristiche del movimento e persino delle complicità su cui poteva contare o sulle simpatie che poteva suscitare ribellandosi ad uno Stato che si presentava solo con la faccia feroce della repressione militare e poliziesca e dei tribunali speciali. Resta il dato inconfutabile del carattere violento ed eversivo del fenomeno da sradicare, ma resta anche il limite invalicabile che uno stato di diritto deve rispettare anche quando deve mettere in campo azioni di emergenza.
Non deve stupire che il brigantaggio post-unitario continui a far discutere. Giudicato di volta in volta “forma primitiva di rivolta sociale”, “guerra civile” , “reazione alla politica piemontese” , “estremo tentativo di revanchismo legittimista filoborbonico”, certamente violento e sanguinario quanto la criminalità comune organizzata, deve forse proprio all’insieme di queste sue caratteristiche la sua natura controversa ed ambigua, che di volta in volta fa pendere la bilancia da un lato o dall’altro, lasciando irrisolti nodi che finiscono con il proiettare un’ombra imbarazzante persino sul presente.
Continuare a indagare, a cercare documenti, a confrontare versioni, come fa Nicola Savino con questo suo lavoro, aprendo anche la prospettiva dei sentimenti personali e delle condizioni alle quali potessero essere liberamente espressi ed assecondati in quelle particolarissime circostanze, è certamente opera lodevole, che fa onore a chi la compie. Aggiungere anche un piccolo tassello agli elementi di valutazione e giudizio disponibili non può che aiutarci ad orientarci di più nel nostro passato, anche per comprendere meglio il nostro presente.
INFORMAZIONI:
Autore | Nicola Savino |