Longobardi, Franchi, Bizantini e Saraceni, dal 774 al 994, si contendono i territori dell’Italia un tempo dominio incontrastato dell’impero romano. Le lotte fra i ducati di Pavia, Benevento, Salerno, Acerenza, la divisione del Sacro Romano Impero fra i figli di Carlo Magno, le invasioni dei Saraceni e dei Bizantini, l’intervento di Ludovico II, Ottone I e Ottone II di Svevia in difesa del regno d’Italia, costituiscono i capitoli di una contesa durata 220 anni con guerre, stragi, epidemie e devastazioni. All’interno di questo grande affresco storico, complesso e poco sconosciuto, la nascita della leggenda di S. Eustachio Santo Patrono di Matera, più volte incendiata e rasa al suolo.
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774-994… e si oscurò il sole
Longobardi, Franchi, Bizantini e Saraceni, nel Sud Medievale d’Italia
Dalla Prefazione di Giovanni Caserta
Così scrive Lupo Protospata, citato da Nunzio Cicchetti: Anno 916. Exierunt Agareni de Garillano, et sunt 350 anni quo intraverunt Langobardi in Italiam, sub Alboun Rege eorum … (“Anno 916. Andarono via i Saraceni dal Garigliano. E sono 350 anni da quando i Longobardi entrarono in Italia”). Et obscuratus est Sol. Accadde anche, come è noto, che i Longobardi, già nel 571, con Zottone, dilagarono nel Sud, creando il vasto Ducato di Benevento, di cui fece parte l’intera Lucania, presto diventata anche Basilicata. L’Italia si trovò divisa in più tronconi, quando ancora da poco aveva riavuto la sua unità quale provincia bizantina. Ciò era accaduto per merito dell’imperatore Giustiniano (527-565), che l’aveva sottratta agli Ostrogoti, grazie all’opera dei generali Belisario e Narsete. Tutto era avvenuto attraverso una lunga guerra, detta guerra gotico–bizantina, o gotico-greca, durata dal 535 al 553. Era stata una guerra rovinosa, con rapidi rovesciamenti di fronte, accompagnati da eccidi, epidemie, fame. Il racconto, tragico, è fatto dallo storico Procopio da Cesarea.
Si registrò, in quella guerra, il valore di due grandi generali bizantini: Belisario e Narsete. Nella guerra contro i due generali si trovarono impegnati quattro re ostrogoti. Il primo fu Teodato (534-536). Seguirono Vitige (536-541), Totila (541-552) e Teia (552-553). Le popolazioni erano frastornate, non sapendo con chi stare. I Bizantini, non meno feroci dei Goti, non sempre furono accolti come liberatori; e i Goti, dal loro canto, con Totila, l’immortale, tentarono persino di farne una guerra sociale, sottraendo terre ai possessores filo-bizantini, per assegnarle ai contadini nullatenenti. Si trattò di una sorta di forzata riforma agraria.
Su questa Italia si riversarono, come si è detto, i Longobardi, che, insediandosi in parte al Nord, in parte al Sud, chiudevano al centro lo Stato pontifico, in fase di formazione dopo che, da Liutprando, re longobardo (712-744), al papato fu assegnato, nel 728, il castello di Sutri.
Intanto, a complicare la situazione, tra territori longobardi e bizantini si insinuavano i Saraceni, apparsi, secondo Lupo Protospata, 40 anni prima del 916. Scrive infatti il Protospata: Anno 916. Explentur 40 anni, ex quo Agareni introierunt in Italiam (“Si compiono 40 anni da quando i Saraceni entrarono in Italia”). Ciò, secondo questa informazione, sarebbe avvenuto nell’876. In verità i Saraceni non erano arrivati tutti in un anno, ma in fasi diverse, spesso solo attraverso scorribande. La prima presenza, ovviamente, era stata in Sicilia, dove il primo sbarco è registrato nell’827. Ne erano seguiti molti altri in Calabria, Puglia e Lucania Basilicata. Proprio in Lucania Basilicata, in seguito, si ebbero veri e propri insediamenti abitativi, come nella Ràbata di Tursi, Tricarico, Acerenza e Pietrapertosa, o lunghe occupazioni, come a Matera, Irsina, Pisticci e persino Potenza. Era inevitabile, ovviamente, che gli scontri fossero sempre anche di natura religiosa, tra cattolici, greco-ortodossi e musulmani.
Il papa, sia per ragioni politiche, sia per ragioni religiose, non poteva stare a guardare. E poiché l’imperatore, chiunque fosse, non rinunziava a riprendersi il possesso dell’Italia, e soprattutto dell’Italia meridionale, il papa, chiunque fosse, trovò in lui un naturale alleato, da invitare e spingere a successive spedizioni in Italia, stante anche la lunga tradizione cattolica dei Franchi, da Pipino il Breve (751-768) e Carlo Magno (768-814), in giù. Si ebbe, quindi, una successione di “calate” di truppe imperiali, che, partendo proprio da Carlo Magno, passarono per Ludovico II (855-875), Ottone I (936-973), Ottone II (973-983) e Ottone III (983-1002). Son tutte vicende raccontate nettamente da Nunzio Cicchetti e graziosamente illustrate da Franco Carella. Insomma, i popoli in guerra diventavano quattro: Franchi, Bizantini, Longobardi e Saraceni. Il papa era dietro le quinte. Si può immaginare quale fosse la vita delle popolazioni meridionali, costrette a cambiare, a più riprese, tra eserciti sempre inevitabilmente crudeli, anche atteggiamento religioso. Ce lo racconta, con Nunzio Cicchetti, Lupo Protospata, un cronista, il cui luogo di nascita per alcuni è Bari, per altri è Matera, per altri ancora è Ascoli Satriano. Sarebbe vissuto tra il 1030 e il 1107. Uomo di fede, fu contemporaneamente vescovo di Ascoli Satriano e funzionario imperiale, cioè protospata, ovvero, come sarebbe meglio dire, protospatario. Il tutto egli annota, seccamente, nel suo Breve Chronicon rerum in Regno Neapolitanorum gestarum ab Anno Salutis 860 usque ad 1102 (“Breve cronaca delle cose accadute nel Regno di Napoli dall’Anno della Salvezza 860 al 1102”).
Quale uomo di fede, egli, come tutti nel Medioevo, legge la storia in chiave provvidenzialistica, cioè come preordinata secondo un piano di Dio. Un fenomeno che, con grande frequenza, accompagna le vicende di quegli anni nel Sud, è l’oscuramento del Sole. A più riprese, infatti, si legge che obscuratus est Sol.
In siffatto contesto storico, sociale e religioso (se non mistico), grande diffusione ebbero l’anacoretismo e il monachesimo, unico conforto e unica difesa, o rifugio, contro le angustie del tempo. Grande fu il ruolo che ebbero i primi insediamenti basiliani e benedettini. Ma non bastava. Ci voleva anche la spada. Dopo il fallimento dei re e imperatori franchi, ci pensò papa Niccolò II (1059-1061), che, ben consigliato dal monaco Ildebrando, a Melfi, nel 1059, chiese aiuto all’uomo giusto. Si trattava di Roberto il Guiscardo, astuto condottiero venuto dalla Normandia, e quindi dalla Francia cattolica, con un gruppo di forti soldati di ventura, grazie ai quali era diventato conte di Melfi (1059-1085). A lui papa Niccolò II affidò il compito di ricacciare a mare gli infedeli e unificare il Sud, restituendolo alla fede cattolica. Era un vero e proprio progetto di Crociata, messo in atto nell’Italia meridionale.
Era scontato che il re del costituendo Regno di Napoli sarebbe stato Roberto il Guiscardo, o, comunque, un suo discendente. Questi, però, doveva considerarsi suddito o vassallo del papa, con l’ovvia conseguenza che il Regno stesso era sottoposto alla giurisdizione del papa, come terra sua. Ciò ebbe conseguenze importanti in tutte le vicende successive d’Italia, perché il papa mai rinunziò a vigilare sulle terre del Sud e sui loro re, entrando di peso nelle loro vicende, come quando, nel 1266, contro Manfredi, restìo ad obbedirgli, chiamò Carlo d’Angiò, o come quando, fatta l’unità d’Italia, appoggiò il brigantaggio, con cui si voleva il ritorno all’antico. Roberto d’Angiò e i suoi coraggiosi normanni fecero bene la loro parte. Di fatto il Sud fu tutto riunificato alla data del 1130, quando Ruggiero II, discendente da Roberto, conquistò la Sicilia. Grazie anche all’opera dei frati benedettini, fu allora compiuto tutto un processo di latinizzazione e cattolicizzazione del nuovo Regno, che, per questo, subiva un cammino storico analogo a quello di Spagna, anche nel modo di sentire il cattolicesimo. Con la stessa ferocia e ostinazione con cui i musulmani avevano cacciato e perseguitato i cattolici, ora accadeva il contrario. Dalla Sicilia fuggirono via intellettuali e poeti musulmani, che sentirono la propria espulsione come cacciata dalla propria, legittima patria. Le moschee diventarono chiese. Un poeta musulmano, Ibn Quasim ibn Zay, così lamentò le stragi compiute dai Normanni vittoriosi: “Quanta guerra per te, notte su notte / e quanti assalti disperati!”. Altri, non diversamente da Dante, cantarono, esuli, il dolore per l’abbandono di una terra ricca di sole. Esemplare è il canto di Abd al-Alim: “Amavo la Sicilia nella mia prima giovinezza: / m’appariva simile ad un giardino di perenne felicità. / Ma non ero ancora giunto agli anni della maturità / che, mirate, divenne una rovente Gehenna”. Ancor più dolorosamente Ibn Hamdis, forse il maggiore di tutti, dal lontano esilio versava lacrime sulle moschee trasformate in chiese, ove i monaci e i preti “a piacimento facevan parlare le loro campane / sonandole mattina e sera”. Sono destini umani, e vicende dolorose, su cui è bene meditare, soprattutto perché il Sole non si oscuri ancora.
INFORMAZIONI:
Autori | Franco Carella-Nunzio Cicchetti |