Giustino Fortunato e le due Italie è un titolo che sintetizza non solo il percorso che Corrado compie attraverso la vita e le opere di Giustino Fortunato, ma contiene “in nuce” l’obiettivo del libro: indicare come lo sguardo di Fortunato sul Mezzogiorno illumini i problemi e le situazioni del presente. Fortunato sfatò il mito del Sud “giardino d’Europa” dimostrando come il Mezzogiorno fosse una terra che, per millenni, ha subito condizioni sfavorevoli di clima, di suolo, di strutture e posizione topografica. L’autore ci aiuta a vedere come matura in Fortunato il pensiero liberale, un’evoluzione che lo porta a delineare la posizione di un partito progressista liberale e che sfiora l’idea di un socialismo di Stato. Il libro costituisce un contributo notevole per conoscere l’opera e il pensiero di chi si batté per migliorare le condizioni del suo Mezzogiorno, senza successo allora ma oggi, in compenso, fornendoci luci e strumenti ancora validi per lavorare alla rinascita del Sud.
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PREFAZIONE
di Giovanni Russo
Uno sguardo dal passato sul presente
Giustino Fortunato e le due Italie è il titolo di un ritratto di Giustino Fortunato. E usiamo la parola “ritratto” a buon motivo: l’autore Gerardo Corrado è un pittore, oltre ad essere uno studioso della storia lucana, e uno scrittore. Su Carlo Levi, l’autore di Cristo si è fermato ad Eboli, e sul poeta suo conterraneo Michele Parrella, ha scritto due saggi che contengono illuminanti riflessioni e rovesciano molti luoghi comuni.
Il titolo sintetizza non solo il percorso che Corrado compie attraverso la vita e le opere di Giustino Fortunato, ma contiene “in nuce” l’obiettivo del libro: indicare come lo sguardo di Fortunato sul Mezzogiorno illumini i problemi e le situazioni del presente.
Se non si colloca Fortunato nella storia di Rionero in Vùlture, il paese della Basilicata, dove la sua famiglia di grandi proprietari e agricoltori, originariamente affittuari del Tavoliere, si era trapiantata dal ‘700 e dove nacque anche uno dei più celebri protagonisti del brigantaggio post-unitario, Carmine Crocco, molti aspetti della sua personalità e della sua opera non sarebbero comprensibili. Non si capirebbe perché, come ha scritto Croce, cui fu legato da stima profonda e tenera amicizia, egli “quasi ha impersonato in sé il problema del Mezzogiorno e gli ha consacrato intera la sua vita”.
Non credo che Giustino Fortunato gradirebbe oggi essere definito meridionalista, una parola che pure ha significato tanto nella storia del nostro Paese agli inizi del secolo scorso fino ai primi anni ferventi della democrazia alla caduta del fascismo. Il grande pensatore e uomo politico lucano, nella premessa alla raccolta dei suoi discorsi parlamentari pubblicati, a sue spese, da Latenza nel marzo del 1911 col titolo Il Mezzogiorno nello Stato Italiano, opera fondamentale per capire i problemi del Sud, scrive che “fortunatamente non è più chi derida i non molti che primi vollero, fu detto, regalare allo Stato italiano una questione meridionale”.
Purtroppo non è più cosi. Oggi “questione meridionale” è un termine che suscita talvolta uggia e che è stato quasi rimosso se non sommerso dalla questione cosiddetta settentrionale, dal leghismo di Bossi e dal modo superficiale con cui viene affrontato il rapporto tra le due Italie, tra Nord e Sud. Ho l’impressione che Giustino Fortunato sarebbe infastidito dai dibattiti, dalle tavole rotonde, soprattutto dalla retorica che circonda il tema della questione meridionale; certamente sarebbe sdegnato dal fatto che si proclamino meridionalisti tanti politicanti analoghi a quelli che egli e Salvemini avevano in disprezzo e che hanno contribuito con il clientelismo, l’assistenzialismo e l’industrializzazione senza sviluppo a lasciare intatto il divario tra Nord e Sud. Ciò non toglie quanto di buono si è fatto nella politica per il Sud (dalla Riforma agraria, alla Cassa per il Mezzogiorno, all’intervento straordinario dello Stato) fino alla metà degli anni Sessanta, per opera di uomini di ogni partito. Questo non sarebbe stato possibile neppure concepirlo se Fortunato non avesse indicato agli italiani la questione meridionale ponendo il problema delle due Italie non solo economicamente disuguali ma moralmente diverse e non avesse continuamente insistito nella sua attività di parlamentare e di studioso su una verità ancora oggi valida: che quello del Mezzogiorno è il problema fondamentale di tutto il nostro avvenire perché “solo dalla soluzione che ci si proponga di dargli sarà possibile avere norme e garanzie di un diverso avviamento di governo della Cosa pubblica”.
Parole scritte nel 1911 ma che fanno pensare allo sfasciume di Napoli, alla tracotanza sanguinosa della camorra alleata del clientelismo, al gelido dominio della mafia in Sicilia, ai disastri che l’emigrazione disordinata del secondo dopo guerra ha provocato in quell’Appennino lucano che Fortunato aveva percorso a piedi e descritto in pagine così belle anche letterariamente.
All’inizio del libro Corrado cita due episodi. Il primo riguarda la notizia dell’elezione alla Camera di Fortunato nel maggio 1880. “Sul più bello – scrive Corrado – quando gli ‘evviva’ esplodono all’unisono, don Pasquale Fortunato, il vecchio padre del neoeletto, non può trattenersi dal piangere. Non piange per la vittoria elettorale del figlio, di cui va segretamente orgoglioso: piange perché a quel punto il mondo in cui ha vissuto, e ha creduto, è crollato definitivamente. Può un figlio ignorare il dolore di un padre? Giustino conosce il significato di quelle lacrime eppure è forte in lui il convincimento che, un giorno, saranno riscattate da un mondo meno triste, meno oscuro del passato”. L’altro episodio, che riflette il clima politico e culturale vissuto da Fortunato in quegli anni, è il racconto di un contadino che lo aveva incontrato durante una delle sue passeggiate sull’appennino lucano. Ecco cosa gli disse il contadino: “Sotto Franceschiello la povera gente stava meglio. Poi è venuto il re ‘galantuomo’: ma chi lo ha voluto questo re, se non i ‘galantuomini’? Ora il comune è roba loro, i boschi se li affittano tra di loro, mentre prima se ne potevano servire tutti senza pagare: ora guai a pigliarsi un po’ di legna. Quand’è che ci sono le elezioni, questi ‘signori’ girano per le case con le liste scritte e ti dicono dove ti devi mettere, su questo o su quel segno”.
Partendo da questi episodi, Corrado fa una rigorosa ricostruzione del pensiero di Fortunato che sottoponeva a durissime critiche sia il sistema tributario italiano, che faceva pesare le imposte indirette sul Mezzogiorno, sia le cause della scarsa circolazione del capitale, soprattutto privato, che veniva assorbito dai prestiti pubblici che andavano a finanziare in massima parte imprese del Nord. Le analisi di Fortunato erano impopolari perché mettevano in luce le contraddizioni degli interventi governativi che erano basati sul pregiudizio secondo il quale il Sud era più opulento del Nord per il bel clima, mentre era vero il contrario, come Fortunato non si stancava di ripetere, auspicando il ritorno a un tipo di agricoltura e di zootecnia alla quale era stato sostituita una cerealicoltura di “rapina”.
Fortunato sfatò il mito del Sud “giardino d’Europa” dimostrando come il Mezzogiorno fosse una terra che, per millenni, ha subito condizioni sfavorevoli di clima, di suolo, di strutture e posizione topografica. Sicché si ebbe accuse di “denigratore del Mezzogiorno” dalla borghesia del Sud avida e parassitaria. Da queste idee discendono le sue battaglie parlamentari perché lo Stato unitario affrontasse, nel Mezzogiorno, coraggiose riforme, modificasse un sistema tributario ingiusto (tema di un suo scritto famoso), non sacrificasse gli interessi dei contadini a quelli dei “galantuomini”.
Corrado ci aiuta a vedere come matura in Fortunato il pensiero liberale, un’evoluzione che lo porta a delineare la posizione di un partito progressista liberale e che sfiora l’idea di un socialismo di Stato. Queste sovrapposizioni ideologiche però non pregiudicano il punto centrale a cui Fortunato si ispirava: la lotta alle clientele e alla corruzione. Egli capì, come osserva Corrado, che statizzare e socializzare significava burocratizzare. Il libro smentisce inoltre la tesi di un Fortunato incapace d’azione citando i suoi precisi interventi, ad esempio quello sulle ferrovie delle Ofantine che collegavano Rionero con la Puglia, e indica le ragioni per cui, a torto, veniva considerato un pessimista rassegnato.
Come deputato, come collaboratore della “Rassegna settimanale” di Franchetti e Sonnino, come pensatore politico e come storico, si batté sempre su due fronti, contro i rigurgiti del borbonismo considerando unica salvezza del Sud l’unità indissolubile della Patria e contro i luoghi comuni dei settentrionali che non sono mai veramente tramontati, che attribuivano a incapacità o a inferiorità razziale le condizioni di arretratezza del Mezzogiorno.
Due sono le grandi intuizioni del meridionalismo di Giustino Fortunato, la prima riguarda il rapporto tra Mezzogiorno e Stato italiano, il tema delle due Italie, la seconda il suo giudizio sulle condizioni storiche e geografiche del Sud. Manlio Rossi Doria, che ne è stato l’erede spirituale, nell’introduzione ai due volumi che raccolgono gli scritti di Fortunato scrive: “Dopo la guerra il suo pensiero divenne elemento determinante della formazione della coscienza morale e politica anti-fascista in quanto la sua realistica analisi delle debolezze dello Stato unitario e della questione meridionale come problema centrale dell’avvenire del Paese diede allora a ciascuno di noi le chiavi per comprendere le ragioni e il dramma che ci aveva travolto”.
È quindi fondamentale richiamarci a quello che Fortunato scrive proprio come premessa della raccolta dei suoi discorsi: “Il problema che ci resta da risolvere è sempre quello di quella parte dell’Unità italiana che parve miracolo e resterà una favola, e cioè del fatto che vi sono ancora due Italie, non solo economicamente disuguali, ma moralmente diverse, questo il vero ostacolo alla formazione di una futura compagine, di ciò dovremmo tutti finalmente convincerci”.
Fortunato era profondamente convinto della incapacità della borghesia meridionale e del suo egoismo, in ciò d’accordo con Dorso e Salvemini, che si allaccia ai temi più vivi della politica attuale come la polemica sul federalismo. Fortunato, che aveva superato le sue prime idee stataliste sull’intervento dello Stato nel mondo economico e sociale, nel 1896 in un discorso mette bene in luce la confusione tra decentramento e federalismo. Egli è contrario alle Regioni per l’esperienza che ha del Mezzogiorno: il bilancio odierno di quanto accade nelle regioni dell’Italia meridionale gli dà perfettamente ragione.
Giustino Fortunato aveva ben chiara una distinzione: “Ebbene – scriveva – se si tratta di decentramento amministrativo e burocratico il più completo mano all’opera concordi e solleciti perché ne è chiaro e manifesto il vantaggio che ne verrà, è un voto unanime di tutti”. Ma, continuava Fortunato: “Se invece per decentramento amministrativo s’intende l’attribuire ai corpi locali più o meno autonomi vere e proprie funzioni di Stato ciò renderebbe sempre più l’organizzazione dei poteri pubblici una vasta poderosa odiosa clientela delle classi dominanti e l’Italia stessa un oggetto di lusso fatta per chi possiede e per chi comanda, i signori, i ricchi, i pubblici funzionari e uomini politici”.
Amico di Salvemini, Amendola, Nitti, Gaetano Mosca, negli ultimi anni della vita Fortunato si legò a Zanotti Bianco e ai fratelli Rosselli. I cinque volumi del suo carteggio, pubblicati da Laterza, sono un’eccezionale testimonianza della ricchezza di idee e sentimenti che univano gli uomini migliori della sua generazione. Colpiscono la lucidità dei giudizi, la fede nell’idea di libertà e nella funzione del Parlamento, la giustizia per le classi più povere e anche le motivazioni del suo “pessimismo storico”.
Interessanti sono le riflessioni di Corrado sul rapporto tra Fortunato e i tre grandi personaggi della vita meridionale: Croce, Nitti e Salvemini, con i quali mantenne sempre una relazione cordiale e fervida di riflessioni. È illuminante, nel rapporto tra Croce e Fortunato, la loro diversa valutazione della borghesia meridionale che, per Fortunato, non aveva alcuna possibilità di svolgere un ruolo positivo né di sollevarsi da beghe particolaristiche e meschine. Da Nitti, lo divideva il giudizio sul regno borbonico, che era per Fortunato completamente negativo. Da Salvemini, di cui fu collaboratore nel giornale “L’Unità”, lo divise l’atteggiamento nei confronti dell’intervento nella grande guerra: Fortunato, come Croce, riteneva che l’Italia dovesse restare neutrale, presumendo che la sua struttura sociale non avrebbe retto nel caso di una catastrofe politica e militare.
Dopo l’attentato compiuto da un contadino ubriaco che lo colpì alle spalle con un punteruolo nella piazza di Rionero (ragione per cui non volle più metter piede nel paese natale), Fortunato si chiuse sempre più in se stesso e tranne pochi incontri, tra cui quelli con Croce, visse isolato giudicando il movimento fascista, che si sta affermando, un effetto della frustrazione della piccola borghesia che aveva più di ogni altra classe sofferto a causa della guerra. Il suo pensiero è riflesso bene nell’opuscolo, che pubblicò a metà del 1921, intitolato Dopo la guerra sovvertitrice, dove si trovano giudizi profetici sul fascismo.
La vittoria del fascismo accrebbe il suo pessimismo perché egli lo considerava la “rivelazione” di mali antichi e dell’incompatibilità dell’Italia con la libertà e la democrazia. Trascorse gli ultimi anni, malato, a Napoli con la sorella e un fidato cameriere, uscendo di rado per recarsi a casa Croce, ma ricevendo spesso giovani che lo amavano e lo ammiravano. Chi visita la sua casa a Rionero, la biblioteca dove alternava studi economici e politici con quelli dilettosi dei classici (tradusse vari carmi di Orazio) e riflette sulla tenacia della sua lotta per il Mezzogiorno, non può non giustificare il “pessimismo” di Fortunato. Ma era un pessimismo antistorico? Noi crediamo di no. Lo stesso Fortunato si difendeva dall’accusa con parole che, per tutti, dovrebbero essere oggi di esortazione: “Pessimista non è chi sente profondamente il male, sibbene colui che di fronte ad esso depone ogni arme”.
Il meridionalismo di Fortunato era riformista e liberale, favorevole a un’economia di mercato che, come oggi molti sostengono, potrebbe migliorare le condizioni del Mezzogiorno e affrontare il problema della disoccupazione. Per questo, da Francesco Compagna a Manlio Rossi Doria, i meridionalisti democratici del dopoguerra si sono ispirati al suo pensiero che, come scrisse proprio Rossi Doria, rappresentò la chiave per comprendere la questione meridionale.
La sensibilità di Corrado e la sua affinità nel modo di sentire e vedere i problemi del Mezzogiorno con Giustino Fortunato si riflettono in queste pagine. La sua prosa in certi punti rivaleggia con quella del grande meridionalista, per esempio nella descrizione degli Appennini lucani e della terra franosa. Egli riflette sulle situazioni attuali del Sud dall’interno di una terra come la Lucania, e nella sua descrizione della vita e dell’impegno di Fortunato c’è la stessa tensione di certe pagine dell’uomo politico. Questo libro costituisce un contributo notevole per conoscere l’opera e il pensiero di chi si batté per migliorare le condizioni del suo Mezzogiorno, senza successo allora ma oggi, in compenso, fornendoci luci e strumenti ancora validi per lavorare alla rinascita del Sud.
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INFORMAZIONI:
Autore | Gerardo Corrado |