La raccolta di Rosalba Griesi, I racconti di nonna Peppa, ha l’intento di salvare le ultime sopravvivenze del dialetto e delle tradizioni popolari di Palazzo San Gervasio, cittadina cara a Manfredi, figlio illegittimo di Federico II di Svevia. La ricerca si estende dai proverbi ai detti, dai racconti ai mestieri e ai giochi, dai canti alle filastrocche, fino ad un piccolo glossario. Il dialetto è, senza ombra di dubbio, un idioma «potenziale», che trasfonde nella parola frammenti non solo della «storia del costume» di una società, ma attestazioni d’identità, di eticità, di cultura.
Prezzo: | €20.00 |
Dimensione: | 21cm x 15cm x 1cm (LxWxH) |
Peso: | 100 kg |
Recensioni
I racconti di nonna Peppa: tra lirismo poetico e legame alla tradizione di Francesca Amendola
Il dialetto è, senza ombra di dubbio, un idioma «potenziale», che trasfonde nella parola frammenti non solo della «storia del costume» di una società, ma attestazioni d’identità, di eticità, di cultura. Una letteratura dialettale (intento per questo: poesie, canti, detti, racconti etc…) non può essere subalterna all’italiano poiché, e Gramsci docet, possiede una tradizione non meno colta della letteratura egemonica, una «filosofia spontanea», insita nel linguaggio stesso, nel senso comune e nel buon senso; nella religione popolare basata su un sistema di credenze, di superstizioni; nel modo di concepire il mondo e la vita. Non sono tanto lontani gli anni in cui l’antropologo Ernesto de Martino individuava la necessità di un approccio non descrittivo e non naturale del folklore bensì teorico e metodologico. Oggi assistiamo a una nuova fioritura di studi sul dialetto e su tutte quelle forme di vita tradizionale, che tengono conto non solo del criterio metodologico ma storicistico, necessario per non scadere nella sfera di mera curiosità o di romanticismo fuori del tempo.
La raccolta di Rosalba Griesi, I racconti di nonna Peppa, ha l’intento di salvare le ultime sopravvivenze del dialetto di Palazzo San Gervasio, di questa cittadina cara a Manfredi, figlio illegittimo di Federico II di Svevia, di quell’epoca vanta il Palatium (il castello). La ricerca va: dai proverbi ai detti, dai racconti ai mestieri e ai giochi, dai canti alle filastrocche e a un piccolo glossario per dimostrare, che il popolare non è forma mentis, di pasoliniana memoria, ma substrato straordinario di nessi e legami di ordine sociale e psicologico di un “vicino” passato, in cui affondano le nostre radici.
È nel secondo dopoguerra, dopo che il verismo aveva fatto riscoprire il concetto di popolo, che è altro dagli “umili” manzoniani, e dopo che il fascismo concepì il folklore come retaggio etnico e come forma ricreativa dello spirito, che si capì il valore scientifico delle indagini demologiche, volte a considerarlo non più come deposito di cose inutili o stravaganti, ma come un mondo, quello dei contadini del sud, rimasto a lungo ignorato. Infatti, scriveva Gramsci, il «folklore non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio», e l’importanza data al folklore sardo, conosciuto negli anni dell’infanzia, dimostra la sua attenzione verso il mondo subalterno e la dimensione sociale. Infatti nella lettera del 16 novembre 1931 ricorda alla sorella Teresina l’episodio delle popolane, che credevano nell’esistenza di una «donna Bisodia», che altro non era se non il dona nobis hodie del Pater Noster. Il suo interessamento per il folklore è evidente ancora di più nel valore di insegnamento che attribuisce alle fiabe e favole, ascoltate nell’infanzia, che non sono vane eccentricità ma un patrimonio a cui attingere per la formazione delle future generazioni. Fu un romanzo, Il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, a far scoprire il mondo contadino del Sud, intessuto di arcaismo, di segni, di miti, di linguaggio proprio; un mondo che in seguito Rocco Scotellaro stigmatizza in Contadini del sud, dandone una documentazione precisa, che ha valore di riscatto per la sua gente. Alla base dell’interesse sulle condizioni del popolo lucano vi è un romanzo e, quindi, un’opera letteraria, che non ha lo scopo di un’obbiettiva ricerca poiché «i vari aspetti della tradizione popolare sono un semplice mezzo per creare l’atmosfera dell’ambiente», pur tuttavia ha contribuito a far conoscere il mondo dei braccianti, delle loro condizioni ambientali e storiche, della loro psicologia e vita.
Ernesto De Martino, partito dalle concezioni gramsciani tra cultura subalterna e cultura egemonica, vede tra gli operai di Puglia e i contadini della Lucania la sopravvivenza di riti antichissimi e di elementi primitivi, che non si trovano solo in Puglia o in Lucania ma in ambito europeo ed extraeuropeo. Sulla scia di dare valore scientifico al folklore lucano si pone un altro scritto: Tradizioni popolari in Lucania di Giovanni Battista Bronzini, un’inchiesta condotta con il metodo sociologico di Van Gennep, demologo francese. Nella raccolta ci regala un quadro minuzioso della vita tradizionale in Lucania, secondo lo schema: nascita, infanzia e adolescenza, fidanzamento e nozze, malattia e morte. La ricostruzione minuziosa che i ricercatori locali (locali perché operavano in periferia ma molti, come il Toschi, il Pitrè di statura internazionale) hanno fatto, ha contribuito a ricostruire la storia, la letteratura del popolo che educava attraverso detti e mottetti. Infatti un esempio per tutto sono i proverbi, che ora con accento pungente ora con gentilezza e poesia ora con gramo salis sferzavano i costumi con massime morali.
La Lucania, della quale Palazzo è l’ultima porta prima della vicina Puglia, non è la «Cenerentola del Meridione popolare» (affermazione di Pier Paolo Pasolini), ma la culla di una varietà di dialetti, diffusi sul territorio nazionale e la leader di una autenticità, che gli studiosi hanno riscoperto. Terra di atmosfere magiche di un mondo lontano ma coinvolgente, che si riassapora nella ricerca della Griesi; un mondo nel quale è saldo il legame con le feste del paese e le processioni; la bonomia ironia con la corrosa maldicenza di piazza, la bellezza dei paesaggi assolati nella canicola estiva, rotta dal frinire ossessivo delle cicale o dal latrare di qualche cane con l’indolenza atavica.
I detti dialettali ci fanno riscoprire il sapore di una quotidianità agreste mista a una rassicurante semplicità e affetto degli ultimi ‘grandi’ vecchi, che ancora raccontano: «ai miei tempi….» nella speranza che qualcuno li ascolti o che consegnino la loro saggezza a una penna amica, che sappia restituire al cuore e alla mente significati autentici.
Per la Griesi sono ancora valide le parole, pronunciate da Maksim Gor’kij al primo Congresso degli scrittori sovietici nel 1934, « il principio dell’arte e della parola si trova nel folklore, studiatelo, elaboratelo. Esso offre moltissimo materiale a noi e a voi, poeti e scrittori (dell’Unione Sovietica)»
Alle soglie del terzo millennio la Griesi ascolta gli ultimi epigoni della saggezza popolare.
INFORMAZIONI:
Autore | Rosalba Griesi |