L’Unità d’Italia e il paese di Salandra sono la cornice e il luogo in cui si svolgono le vicende di questo romanzo storico. Il libro offre uno spaccato non solo della storia importante (Garibaldi, l’Unità d’Italia, il brigantaggio) ma anche la declinazione di quel momento storico in un paese del Sud dove un giorno si era garibaldini contro i galantuomini e i Borbone e il giorno dopo si era con i galantuomini contro i piemontesi. Eppure, paradossalmente, i desideri di libertà e giustizia che muovono don Biase Spazziano e il suo amico fraterno, il brigante “Passaguai” sono gli stessi. La storia li mette contro, ma li mette anche di fronte, come uomini, per scoprire ciò che dura e va oltre la contingenza degli eventi. Qual è la parte giusta?
Prezzo: | €14.00 |
SKU: | 9788898200672 |
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Recensioni
Prefazione
di
Giovanni Caserta
Raffaele Miglionico giunge al romanzo di natura storica dopo una serie di ricerche condotte sul suo paese, Salandra, di cui ha esaminato aspetti folkloristici, religiosi, artistici e, appunto, storici. Il volume, cui immediatamente si collega il suo romanzo, è Borghesi e contadini – Salandra agli inizi dell’Ottocento.
Miglionico, però, non è uno storico o studioso attento solo all’aspetto politico delle vicende esaminate. Gli piace, piuttosto, scendere tra le pieghe della storia, cioè dei grandi e celebrati eventi, per aggirarsi tra le gente comune, di cui esamina tutte le dinamiche. Invece che la storia ufficiale dei grandi libri, gli piace la storia di periferia e la cronaca, che porta in evidenza la vita e gli uomini, quelli che l’esistenza sopportano tra mille sacrifici, baruffe, inimicizie viscerali, ma anche solidarietà, amicizie, amori… In piccolo, Salandra riflette, come in uno stagno, ciò che è grande nell’Italia, in Europa, nel mondo.
Il racconto comincia nel 1856, alla vigilia, si può dire, della seconda guerra di indipendenza, della spedizione dei Mille e della proclamazione dell’unità d’Italia, il 17 marzo 1861, esaltata come “rivoluzione nazionale”. Seguono gli anni tragici del brigantaggio (1861-‘63). A Salandra, a simpatizzare per la causa liberale, sono pochissimi illuminati, contrapposti ai “signori” del paese e ai cosiddetti “galantuomini”, che, nella accezione meridionale, sono addottorati che, posti tra il popolo e i “signori” di vecchia tradizione, normalmente hanno fatto alleanza con questi, aspirando a far parte del loro ceto e a farsi padroni di parte delle loro ricchezze, quasi sempre terriere, raccolte intorno alla solenne masseria. Normalmente ci arrivano con matrimoni ben combinati, portando con sé il prestigio del dottorato. Si salva solo una piccola minoranza, che, già tra ‘700 e ‘800, formatasi presso l’Università di Napoli, aveva fatto propri gli insegnamenti che furono di Galiani, Galanti e, soprattutto, Genovesi. Lì respirarono il clima della rivoluzione francese e, più tardi, del liberalismo, ancorché moderato, cioè giobertiano. Quei giovani avevano fatto la rivoluzione del 1799, del 1821 e del 1848, tutte fallite. Sulla loro scia erano i figli.
A Salandra, a questa schiera appartiene don Biase Nicola Spazziano, figlio di don Carmine. Si è laureato in giurisprudenza. Prima della laurea, nel 1856, studente, con alcuni compagni era stato arrestato e tenuto per due anni nella prigioni di Napoli e dell’isola di Nisida, dove aveva conosciuto Luigi Settembrini, di origini lucane (Nova Siri) e Carlo Poerio. Sostenuto dal padre, si pone contro il ceto dominante, egemone, di ricchi “signori” e presuntuosi “galantuomini”, loro alleati. Con lui ci sono poche unità di altri giovani. Ma ci sono anche non pochi del popolo, lavoratori della terra, braccianti, che vedono, nella lotta politica che si è aperta per l’unità nazionale, l’occasione per dare l’assalto alle terre usurpate al demanio, chiedendone la restituzione.
È la storia di Bronte, in Sicilia; ed è la storia di Gattini a Matera. È evidente, cioè, che la libertà, per i contadini e i nullatenenti di Salandra, come per tutto il Sud agricolo e pastorale, si sostanziava nell’acquisizione di una quota di terra, cioè di un bene materiale, che garantisse consentisse una vita più tranquilla, o meno disagiata. E’ la libertà dal bisogno o, se si vuole, dalla fame.
L’avvento dell’unità d’Italia, purtroppo, non cambiò di molto le cose, almeno quanto alla questione demaniale. Si trattò di un vero e proprio progetto del nuovo governo che, come scopre Miglionico tra le carte del Comune, non voleva “disgustare” quei “galantuomini” e proprietari terrieri che, come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e come nei Viceré di Federico De Roberto, all’ultimo momento si erano abilmente spostati su posizioni liberali. Ai contadini, allora, non restò se non l’appoggio al progetto di restaurazione voluto da Francesco II in esilio, dal Papato e da Potenti locali, riportatisi su posizioni illiberali e filo-borboniche. Il loro appoggio fu da briganti. L‘amico pastore, particolarmente caro a don Biase Nicola Spazziano, cioè Pietrantonio Calice, detto “Passaguai”, dopo aver appoggiato il movimento liberale ed aver preso parte alla insurrezione lucana dell’agosto 1860, denunziato, deluso e offeso, è costretto a darsi di nuovo alla macchia. I due amici di una volta si trovano a militare su posizioni avverse; la ricomposizione si avrà solo nelle future generazioni, quando si incontreranno i rispettivi figli, postisi alla ricerca del proprio passato.
Il racconto di Raffaele Miglionico è profondamente veritiero e vale più di un saggio o più saggi sul Risorgimento, così come vissuto nelle terre di Lucania Basilicata, e nel Sud in genere. Con lui si entra nel tessuto sociale di un paese dell’interno meridionale, dove i fatti nazionali arrivano come un’eco e hanno l’effetto che può produrre un sasso nello stagno, tra pesci e rane. E può accendere illusioni e sogni inaspettati, segnati da innocenza e candore. In fondo, candido, nel suo entusiasmo giovanile, è don Biase Nicola Spazziano; ma è particolarmente toccante il caso di due ragazzi, o appena adolescenti, realmente esistiti, che, il 16 agosto 1860, di corsa, raggiungono i “patrioti” marcianti su Potenza e, poi, verso Garibaldi. Partecipano alla insurrezione lucana del 18 agosto. Sono Francesco Uricchio e Celestino Grassano. Celestino Grassano indossa la tonaca di seminarista. Moriranno tutti e due durante l’assedio di Capua (15 ottobre). Di Francesco Uricchio – precisa Miglionico – “non si trovò il corpo e fu dato per disperso; Celestino, recuperato dai commilitoni, fu seppellito poco oltre, proprio dove era stato colpito, lontano dal suo paese”. Ma si dà anche il caso che si sveglino antichi rancori, amori rubati, denunzie, lettere anonime, vendette, anche trasversali, a lungo meditate e preparate.
In armonia con i fatti, che si svolgono in rapida successione, si pone uno stile secco, essenziale, sostenuto da lunghe galoppate attraverso un paesaggio arido e argilloso, o coperto di boschi fitti e nascondigli segreti. Miglionico dimostra di avere buona conoscenza del territorio, indicato località per località, anche secondo la toponomastica locale. Le donne si schierano con i loro uomini, con cui dividono sentimenti e risentimenti, aspirazioni ad una vita diversa, quando non sono costrette, per bisogno, a sottostare alle voglie del padrone, pur pronte a sottrarsene, quando se ne presenti l’occasione. Uno dei fenomeni più interessanti delle lotte meridionali e del brigantaggio, infatti, fu proprio la presenza delle donne, cadute con i loro uomini, o urlanti davanti al municipio, oppure in prima fila nella occupazione delle terre ancora nel secondo, nostro dopoguerra. Su di loro la polizia esitava a sparare.
Notevole è rilevare che non pochi personaggi del romanzo sono veri, cioè veramente esistiti, briganti e figure storiche consacrate; gli altri, se non sono veramente esistiti, sono verosimili, cioè assai più veri, perché possibili sempre e ovunque. In definitiva, ricco di movimento, il romanzo non si legge. Il lettore ne è letteralmente avvolto.
INFORMAZIONI:
Autore | Raffaele Miglionico |